Ogni anno il 10 febbraio il ricordo delle foibe, un passato alquanto distorto dall'attuale revisionismo soprattutto per quanto accadde durante il periodo in cui vennero creati i primi campi dove trovarono la morte tantissime persone internate.Rinfreschiamo con alcuni scritti la mente dei tanti che hanno dimenticato.
Era il 5 gennaio 1943, quando il conte Galeazzo Ciano ricevette il
giovane segretario del Partito nazionale fascista, Aldo Vidussoni. Nato a
Fogliano in provincia di Gorizia nel 1914, Vidussoni aveva idee molto
precise su come il regime dovesse gestire il mosaico etnico delle sue
terre: «Vidussoni dichiara truci propositi contro gli sloveni – scrive
Ciano nei suoi Diari -. Li vuole ammazzare tutti. Mi permetto osservare
che sono un milione. Non importa, risponde deciso, bisogna fare come gli
Ascari e sterminarli tutti. Io spero che si calmi».
È in questo contesto politico che si svolge la storia del campo di
concentramento di Sdraussina-Poggio Terza Armata, un capitolo
dimenticato della Seconda guerra mondiale nell’Isontino. Creato
nell’estate del 1942 come carcere sussidiario della prigione di Gorizia,
divenne un inferno per i civili sloveni rastrellati nelle zone
d’occupazione, ma anche per cittadini italiani ( di lingua slovena e
italiana) e per le famiglie dei partigiani. Oggi soltanto una lapide
ricorda quella vicenda, scomoda negazione della leggenda degli ”italiani
brava gente”.
La rete dei campi
L’invasione nazifascista della Jugoslavia nel 1941 e la durezza delle
forze d’occupazione generarono da subito un forte movimento di
resistenza. È in quel periodo che le autorità fasciste allestirono una
prima rete concentrazionaria nel territorio della Provincia di Gorizia,
allora molto più vasto di oggi. «I primi campi furono aperti dal comando
d’armata a Cighino di Tolmino e Tribussa inferiore nel febbraio del ’42
– spiega lo storico Luciano Patat -. Ma erano piccoli e fuori mano, e
furono presto sostituiti dai più grandi campi di Gonars e Visco, e da
altri campi minori nell’Isontino».
Sdraussina
Il campo di Sdraussina nasce nell’estate del 1942 nei fabbricati
dell’ex cascamificio. Vi transitano semplici uomini e donne, italiani e
sloveni per cui non c’era spazio nelle carceri goriziane. Tra questi c’è
Lino Marega, figura nota dell’antifascismo isontino. Nel suo memoriale
Marega racconta come i prigionieri venissero portati a Gorizia e Trieste
per gli interrogatori. Alcune donne tornavano poi al campo, ricorda
Marega, e si potevano riconoscere soltanto dai vestiti che indossavano a
causa delle torture subite. Vicino alla ferrovia e facilmente
sorvegliabile, il campo di Sdraussina era un centro di smistamento
prigionieri ideale.
«Il campo di Poggio non era l’unico – spiega Patat -. Sotto il
monastero della Castagnavizza ce n’era un altro, esclusivamente
femminile. A Fossalon c’era invece un campo di internamento per
cittadini italiani di lingua slovena. Era sostanzialmente un campo di
lavoro. Lì però le condizioni di vita erano migliori, poiché la
sorveglianza era affidata ai carabinieri, al contrario di Sdraussina,
che era in mano a reparti delle camicie nere». Dopo l’armistizio la rete
concentrazionaria fascista crollò, e molti prigionieri riuscirono a
fuggire. Alcuni campi, come quello di Poggio, furono in parte
riutilizzati dai nazisti come centri di smistamento verso i luoghi dello
sterminio.
Vidussoni
Sullo sfondo di queste vicende si muove la figura di Aldo Vidussoni,
che abbiamo citato all’inizio di questo articolo, e che proprio in
quegli anni era un nome di spicco del regime. Laureatosi in legge
nell’ateneo triestino, poi volontario in Etiopia e Spagna, Vidussoni era
stato nominato segretario del Pnf da Mussolini in persona nel 1941. Con
quella mossa il duce intendeva indebolire i ”bonzi” del partito,
affidandosi a forze più giovani e fanatiche. Vidussoni, come abbiamo
visto, prese da subito posizioni accesamente anti-slovene.«Vidussoni è un caso atipico per le nostre zone – commenta Patat -.
Trascorse pochi anni a Fogliano, poi andò a Trieste e da lì si mosse sul
piano politico nazionale». Contrariamente all’entusiasmo sanguinario di
Vidussoni, spiega Patat, l’Isontino si era mostrato piuttosto
refrattario al fascismo: «Da noi il movimento attecchì in ritardo – dice
lo storico -. E si trattò di un fenomeno d’importazione: i primi
fascisti isontini erano militari e impiegati fermatisi qui dopo la
Grande guerra. Da subito, però, il nazionalismo si colorì di razzismo.
Nell’allora provincia di Gorizia gli italiani erano minoranza, e
l’italianizzazione s’impose con la forza». Gli effetti sono noti, simili
a quelli che tutti i nazionalismi hanno scatenato su questo confine.
Forse per tutte le vittime di quegli estremismi potranno valere le
parole di Ljubka Šorli, deportata, riportate sulla lapide davanti al
campo di Sdraussina: «Il destino ci nobilita attraverso il dolore. Una è
la fede, uno il grido: libertà».
da Il Piccolo
Quando si parla di criminali di guerra,
non pensiamo mai a nostri connazionali, eppure al termine della seconda
guerra mondiale la Jugoslavia ricercava come criminali di guerra 800
italiani e l’Etiopia altri 400: 1.200 italiani criminali di guerra! Tra
questi i peggiori per i nostri confinanti erano i generali Mario Roatta e
Pirzio Biroli, mentre per gli africani i grandi ricercati erano il
maresciallo Pietro Badoglio e il generale Rodolfo Graziani. Ma
nonostante le giuste richieste straniere, questi generali vennero
protetti e mai processati all’estero, tanto che morirono nei loro letti.
E quando ricordiamo le odiose rappresaglie dei tedeschi durante
l’occupazione dell’Italia (per ogni tedesco ammazzato, 10 italiani
uccisi) dimentichiamo (o meglio non sappiamo) che i nostri connazionali
prima di loro avevano fatto ben di peggio: nell’occupazione del
Montenegro i comandanti italiani disposero che per ogni soldato italiano
ucciso o per ogni ufficiale ferito, si ammazzassero 50 civili e 10 per
ogni sottufficiale o soldato feriti in imboscate; altre rappresaglie in
Jugoslavia portarono a radere al suolo interi villaggi abitati, e in
Somalia la risposta all’uccisione di due aviatori italiani determinò il
bombardamento di tre villaggi con 71 bombe all’iprite.A seguito di
un’azione dei partigiani comunisti di Tito, l’esercito italiano al
comando di Roatta usava questa condotta: interveniva nella zona con
intere divisioni, radeva al suolo i villaggi e deportava nei lager
italiani la popolazione.............. in quel lager che non aveva molto
da invidiare a quelli nazisti, i prigionieri a cui non veniva dato quasi
mai da bere, dormivano per terra nelle tende e venivano nutriti a
maccheroni galleggianti nell’acqua. I bambini erano costretti a
indossare fogli di giornale come pannolini. Le foto di esseri
scheletriti raccontano meglio delle parole le condizioni di vita che in
un inverno del 1942 provocarono in quel solo campo 50 morti al giorno
tra i civili. In tutto a Kampor le vittime accertate furono 4.641
nonostante il tentativo degli italiani di camuffarne il numero
seppellendo fino a tre bare sotto un’unica croce. Ma il numero
complessivo degli jugoslavi deportati nei lager italiani è di 150.000
(si calcola che sui 360.000 abitanti della provincia di Lubjana, 70.000
vennero internati e 15.000 uccisi).......
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